Sensazioni
Cap 7 - Prestereste mai la vostra auto ad una donna?
La bigamia è avere una donna di troppo,
il matrimonio idem.
Groucho Marx
Erano quasi le undici e lei tardava a rientrare. Mark era disteso nell’ampio letto matrimoniale della stanza numero dodici dell’ala docenti, quella della direttrice Signorit, svogliatamente intento a seguire un programma di ecologia sulla TV via cavo. Lo stomaco aveva ripreso a brontolare e lui non poteva fare nulla per metterlo a tacere; sperava che almeno un po’ di televisione lo avrebbe distratto, ma oramai era digiuno da parecchie ore e nel frattempo aveva avuto una attività sessuale così intensa da bruciare ogni riserva di energia.
I primi morsi della fame si erano fatti sentire quando era ancora nella vasca piena d’acqua calda, poi si erano fatti via via più intensi, fino a manifestarsi con un profondo rantolo che aveva messo in allarme perfino la sua amante.
«Nel frigo non ho trovato nulla di commestibile.» Esordì lei dopo un veloce controllo al mobile in legno che riempiva una buona parte del piccolo soggiorno. «Mi rivesto e vado a prendere qualcosa, hai delle preferenze?»
«Se vuoi possiamo cenare fuori. Se ti piace la carne arrosto conosco una trattoria con forno a legna dove si mangia divinamente. Il proprietario è un amico e mi permette di accedere alla sua riserva personale di vini; ha una cantina fornitissima.»
«Mi piace la carne, soprattutto arrosto, ma non credo sia il caso di violare altre norme interne dell’istituto allontanandoci fuori dall’orario stabilito.»
«Di quali norme stai parlando?»
«Forse lo hai dimenticato, ma tu sei uno studente di questa scuola e non sei autorizzato ad uscire dopo le venti. In effetti dovresti essere nella tua stanza; se ci fosse un controllo saresti nei guai.» Era vero, era una delle vecchie norme di comportamento ancora in vigore dopo quasi cento anni dalla fondazione dell’istituto; ma l’abitudine di effettuare la ronda serale per gli alloggi degli studenti o peggio ancora le tanto temute ispezioni a sorpresa erano cosa vecchia, dimenticata da tempo. Si preferiva rimettere al buon senso degli studenti il rispetto delle regole interne e le punizioni per chi trasgrediva in maniera grave non andavano oltre la consegna in sala studio per mezza giornata. E poi, si faceva molto affidamento sul senso dell’onore e della responsabilità, due qualità ritenute preziose per tutti gli individui della classe alta che frequentavano quel tipo di scuola.
«Non mi riferivo a quello! Volevo sapere quali norme abbiamo già violato, perché io non me ne sono accorto.»
«L’ala docenti dell’istituto e vietata agli studenti; tu non dovresti essere qui e io non dovrei essere qui con te. Anzi, io non dovrei essere qui con nessuno. Non è permesso avere ospiti, neanche i coniugi sono ammessi, e io che dovrei dare l’esempio passo la notte con un mio studente.»
«Hai intenzione di passare la notte con me?»
«Certo che ho intenzione di passare la notte con te.» Intanto aveva preso a baciarlo sulla bocca, premendo con i seni contro il torace muscoloso. «Pensavi di potertene andare così? Se resti prometto che non te ne pentirai…»
All’inizio lui aveva risposto ai suoi baci con una certa indifferenza, poi si era fatto più passionale, l’aveva stretta a sé accarezzandole la schiena nuda e ora, mentre palpava energicamente i glutei sodi, cominciava a eccitarsi.
«Ti prego smettila! Se ricominciamo poi non credo che avrò più voglia di uscire.»
«Vado io, non preoccuparti.»
«Sei pazzo.» Con uno scatto si era liberata della sua stretta e aveva iniziato a vestirsi con velocità. «Se qualcuno ti vedesse uscire da questa stanza sarebbe un casino. E poi correresti ulteriori rischi al rientro. Esco io, è meglio!»
Intanto si era infilata la gonna e la camicia. Mark le girò attorno e raggiunse il bagno; ricordava di averle viste, l’immagine era nella sua mente, ma per quanto si sforzasse non riusciva proprio a ricordare il luogo esatto. Si guardò attorno con attenzione e finalmente con la coda dell’occhio intravide le mutandine di pizzo nere che Elena aveva indossato quella mattina nella casa sulla spiaggia. Quando si era spogliata le aveva lanciate in un angolo vicino alla finestra e con tutta l’acqua fuoriuscita dalla vasca era un miracolo che fossero ancora asciutte. Le raccolse velocemente e le fece scomparire nel palmo della mano poi raggiunse la sua amata ancora intenta a rivestirsi.
Quando entrò nella camera da letto lei stava sistemando le autoreggenti; con la gonna alzata all’altezza della vita sistemava il merletto ricamato delle due calze attenta che non ci fossero pieghe e che la riga nera sul retro fosse centrale. Da sotto la gonna Mark poteva scorgere distintamente le grandi labbra, carnose e sporgenti. Una prorompente erezione era il minimo che ci si potesse aspettare da quello spettacolo eccitante e lui la esibì con orgoglio.
«Mark, hai visto le mie mutandine? Non riesco a ricordare dove le ho messe.»
«Spiacente!» Sul suo viso apparve un’espressione compiaciuta che rivelava
gran parte del suo piano. Elena abbassò la gonna e gli andò incontro; quando fu sufficientemente vicina gli prese il cazzo duro e iniziò a masturbarlo lentamente, poi, con voce suadente, gli chiese:
«Davvero non hai idea di dove possano essere le mie mutandine? Sai, fa freddo fuori e non vorrei proprio rischiare di prendere un malanno con la fica scoperta. Ti prego, sii gentile, trova le mie mutandine, così io andrò a prendere da mangiare e al ritorno potremo fare ancora l’amore.»
Mark deglutì a forza, con un’espressione ebete sul volto, estremamente divertito dall’andazzo che aveva preso la faccenda. Gli piaceva quando lei lo toccava; sapeva sempre quale era il movimento giusto, come e quando doveva muovere la mano per stimolarlo, anche il ritmo era sempre perfetto. Alle volte lui voleva essere stimolato più energicamente e lei lo capiva immediatamente, senza che ci fosse bisogno di parlare, così come quando sentiva un po’ di dolore e lei rallentava di colpo e diminuiva la sua tensione. Anche lui cercava di comportarsi allo stesso modo con lei. Capiva quando l’eccitazione le montava dentro ed era il momento di aumentare il ritmo e naturalmente quando lei godeva ed era il caso di rallentare, ma il più delle volte era lei, col movimento del corpo più che con le parole, a suggerirgli quello che doveva o non doveva fare. Era indubbiamente un’amante molto più esperta di quanto non lo fosse lui, ma una cosa era certa: avevano una buonissima intesa sessuale ed entrambi erano molto attenti ai desideri del partner.
«Le tue mutandine sono qui.» E aprì il palmo tenendole con pollice e indice, facendole penzolare vicino al suo naso. Le annusò con un’espressione di trasporto e rapimento sul volto, poi le richiuse velocemente nella grande mano.
«Vuoi fare il favore di darmele?» Intanto lo pizzicò debolmente sulla cappella.
«Non ci penso neanche. Se non posso averti qui con me almeno voglio tenere le tue mutandine, così potrò sentire l’odore del tuo sesso ogni volta che mi pare.»
Sembrava un bambino capriccioso, ma lei era così innamorata di lui da permettergli questi comportamenti un po’ infantili; e poi, vederlo annusare le sue mutande l’aveva eccitata un po’. Al ritorno lo avrebbe violentato, tanta era la tensione sessuale che si era creata.
«D’accordo, tienile pure. Dove sono le chiavi dell’auto?»
«Quali chiavi? Di quale auto stai parlando?»
«Della tua auto. La mia è dal meccanico, lo hai scordato? Non vorrai mica che vada a piedi o peggio ancora in autobus a prendere da mangiare.»
«Ascoltami con molta attenzione.» Il suo sguardo si era fatto improvvisamente serio. «Quell’auto ha più di trenta anni e mai nessuno, oltre a me e a mio nonno, l’ha guidata. Neppure a mio padre era permesso avvicinarsi a lei e tu ora vuoi le chiavi? Mi dispiace tanto, ma non se ne parla.»
«Non fare il bambino. Ho la patente da più tempo di te, sono un’abile guidatrice e prometto che te la riporterò senza neanche un graffio. Su, faccio subito: arrivo al ristorante, prendo da mangiare e torno. Non ho neanche il problema del parcheggio perché da Maxin c’è il posteggiatore.»
«Vuoi andare a prendere da mangiare da Maxin?» L’espressione seriosa era sparita improvvisamente, lasciando il posto ad un misto di curiosità e desiderio.
«Sì, ci sei mai stato?»
«Non ci sono mai stato, ma molti amici me ne hanno parlato come di un posto dalla cucina divina. Pare ci siano tre chef, uno italiano, uno francese e uno giapponese, e che la loro sia una delle migliori cucine creative d’Europa.»
«Proprio così. Io ci vado spesso e ti posso assicurare che tutti i loro piatti sono fantastici. Allora, non ti va di provare? Su, io ti ho dato le mie mutandine, ora tu dammi le chiavi.»
«E va bene, ma solo perché ho fame.» Raggiunse la camicia distesa sul divano e dal taschino estrasse un mazzo di chiavi tenuto insieme da uno splendido portachiavi in argento di forma circolare, con sopra incisa un’aquila nell’atto di spiccare il volo dalla sommità di una rupe. Lo porse ad Elena con un’espressione preoccupata; lei lo afferrò velocemente per paura che cambiasse idea.
«Il portachiavi è molto bello.»
«Sopra c’è lo stemma della mia famiglia; è un regalo di mia madre. Senti, a proposito dell’auto…»
«Sta tranquillo, te la riporto tutta intera.» Gli diede un bacio e uscì velocemente, senza dargli il tempo di finire la frase. Lui restò a guardare la porta per un po’; ancora non riusciva a credere di avergli dato la sua auto. Guardò le mutandine che aveva in mano e sorrise al pensiero che lei fosse uscita senza, poi si andò a sdraiare sul lettone e accese la TV.
Dopo quasi due ore cominciava ad essere seriamente preoccupato. Maxin era uno dei ristoranti più rinomati della zona, molti venivano anche da fuori per gustare le delicatezze di quella cucina, era domenica sera e con ogni probabilità il posto era pieno di gente, ma due ore erano obbiettivamente troppe. Per andare e tornare non avrebbe impiegato più di mezzora e un’ora d’attesa era troppo anche per un ristorante pieno; dove diavolo poteva essere. Improvvisamente si ricordò del telefonino. Rientrando dalla gita al mare aveva lasciato il suo cellulare in macchina e la batteria doveva essere ancora carica; con un po’ di fortuna avrebbe potuto parlare con lei, sempre ammesso che rispondesse a un cellulare che non era il suo.
Raggiunse il telefono appeso al muro dell’ingresso e compose il numero, quindi restò in attesa per un tempo che parve infinito. Aveva quasi deciso di riattaccare quando sentì la sua voce dall’altra parte del cavo.
«Pronto?!»
«Elena, sono Mark, si può sapere dove sei?» A giudicare dai rumori di sottofondo era in auto e stava viaggiando a velocità sostenuta.
«Sono in macchina, hai qualche problema?»
«Se proprio lo vuoi sapere, sì, ho un problema: ti vorrei accanto a me ma non so neanche dove sei.»
«Sei un amore…»
«Non sono un amore, sono affamato e preoccupato.»
«Sei preoccupato per me! Oh, tesoro…»
«Non sono preoccupato per te, ma per la mia auto. Insomma, si può sapere dove sei? Sono più di due ore che sei scomparsa.»
«Sono in auto e sto venendo da te. Ho tardato un po’ perché prima mi sono fermata a prendere delle cose per te, una sorpresa. Vedrai che ti piacerà!»
«A quando stai andando?»
«Come?»
«Ti ho chiesto a quanto stai andando? Quanto segna la lancetta del conta chilometri?»
«Centoottanta, più o meno.»
«Sei pazza?!» Dalla sua voce traspariva un terrore vero. «Sei a centoottanta con la mia auto!»
«Già e sto anche guidando con una sola mano visto che con l’altra devo parlare al telefono con te.»
«Fammi un favore, rallenta.» Il tono era quello di un ordine perentorio più che di un invito. «Adesso chiudo, così potrai concentrarti sulla strada, ma ancora una volta, ti prego, rallenta.»
«D’accordo.» La comunicazione si chiuse bruscamente. Mark rimase immobile, con lo sguardo fisso a contemplare la cornetta, sul viso un’espressione incredula e preoccupata allo stesso tempo; poi si avviò verso la finestra e si mise a fissare la strada da dietro la tendina bianca.
Dopo venti minuti, riconobbe i fari della Porsche che illuminavano il viale d’ingresso, quindi la vide percorrere a grande velocità l’ampio cortile che fronteggiava l’edificio in mattoni rossi dove si trovavano gli alloggi degli allievi e sparire rapida nel piccolo vialetto che conduceva ai parcheggi; non sapeva se essere sollevato o incazzato nero.
Cinque minuti dopo andò ad aprire alla porta. Elena entrò silenziosamente, ancora euforica per la corsa in macchina, un tantino eccitata per la situazione e la paura di essere scoperti che la facevano sentire una adolescente. Gli porse le chiavi e gli stampò un grosso bacio sulle labbra carnose.
«Visto che te l’ho riportata?» Intanto aveva poggiato i grossi sacchetti di carta bianca sul tavolo e aveva iniziato a spogliarsi; lui si limitava a guardarla inebetito. Quando fu completamente nuda riprese i sacchetti e si andò a sedere sull’ampio letto matrimoniale, senza preoccuparsi di lui e del suo sguardo severo.
«Ti decidi a venire o devo mangiare da sola? Mi sembrava d’aver capito che avessi fame!»
Mark la raggiunse in camera da letto. Vederla inginocchiata nuda sul materasso, col sedere appoggiato sui talloni, mentre sistemava sul letto una tovaglia di lino bianca, lo eccitò al punto che dimenticò di avercela con lei. Prese posto di fronte alla donna sedendo sul materasso con le gambe incrociate all’indiana e rimase a guardarla mentre sistemava i contenitori di alluminio sull’ampia tovaglia. Quando ebbe finito di svuotare il primo sacchetto passò al secondo e poi al terzo, dal quale estrasse anche una serie di posate d’argento, alcuni piatti in porcellana e due flute di cristallo.
«Non sapevo se c’erano piatti e posate; nel dubbio me li sono fatti prestare dal ristorante. Ho promesso che li avrei riportati domani, te ne puoi occupare tu? Domani sono piena di impegni.»
«Avrò bisogno del permesso della direttrice per allontanami dall’istituto in un giorno feriale.» Ribatté lui in tono scherzoso.
«Passa nel mio ufficio nel pomeriggio e lo avrai.» Intanto aveva preso una grossa porzione di lasagne da una vaschetta, l’aveva sistemata in un piatto e glielo aveva passato. Mark allungò la mano come per prenderlo ma in realtà mirava al suo seno sinistro; lo strinse delicatamente, poi prese a soppesarlo con aria contemplativa. Lei lo lasciò fare per qualche istante poi prese una forchetta e iniziò a mangiare.
Era buffo vederla mentre si infilava un grosso boccone di pasta in bocca e masticava con gusto mentre lui le accarezzava il seno; Mark la guardò divertito, poi prese un’altra forchetta e cominciò a mangiare dal suo piatto, con naturalezza. Dividere il cibo in quel modo era molto intimo. Doveva essere quello che portava a due persone a passare insieme il resto della vita: poter condividere tutto disinvoltamente, senza preoccuparsi dell’etichetta o delle regole.
Quando ebbero finito il primo Elena passò al secondo. Prese dei bocconcini di carne, doveva essere manzo in salsa chili, e cominciò a imboccarlo amorevolmente. Ogni tanto prendeva un boccone per sé ma la maggior parte delle volte il pezzo sulla forchetta era per Mark. La salsa piccante non tardò a far sentire i suoi effetti: improvvisamente si ritrovarono entrambi molto assetati.
«Hai preso qualcosa da bere?» La domanda era retorica, sapeva benissimo che il contenuto dei sacchetti era esaurito e non aveva visto bottiglie di alcun genere.
«Accidenti, non ci ho pensato. Nel frigo ci sarà dell’acqua?»
«Purtroppo, no! Il bar di questo appartamento è pieno solo di alcolici.»
«Deve essere colpa del vecchio direttore. Io non avevo chiesto nulla di simile al personale che si occupa delle pulizie.»
«Aspetta…» Si alzò dal letto e corse in bagno. Da qualche parte doveva esserci ancora la bottiglia Champagne che aveva preso appena era arrivato; con un po’ di fortuna poteva anche essere tiepida. Si sorprese di scoprire che era ancora fredda: evidentemente il secchiello in argento aveva fatto il suo dovere e l’acqua uscita dalla vasca non aveva sciolto del tutto il ghiaccio che avvolgeva la bottiglia. Tornò in camera trionfante mostrando entusiasta il motivo della sua eccitazione.
«Se sei d’accordo, propongo di pasteggiare a Champagne e festeggiare degnamente la serata.» Intanto aveva iniziato a stappare la grossa bottiglia verde.
«Se proprio non abbiamo altro…»
Il botto fu forte, amplificato dalla quiete che regnava per tutto l’istituto, e Elena si chiese se qualcuno non l’avesse sentito e di lì a poco se non sarebbe venuto a controllare. Mark invece riempì i due bicchieri che avevano sul letto, incurante della schiuma bianca che si riversava sul materasso e gliene passò uno. Bevvero avidamente il primo bicchiere e poi anche un secondo. Il terzo durò un po’ di più.
Dopo le due porzioni di manzo fecero fuori due vaschette di pollo fritto e altre due di gamberoni sgusciati, cotti al vapore con sedano e funghi. C’erano anche delle patate novelle al forno e una grossa porzione di spinaci ai formaggi che Elena mangiò praticamente da sola. Poi fu la volta dei dolci, col tiramisù, l’immancabile crostata alla frutta, la panna cotta ricoperta di caramello e una torta al limone che Mark non aveva mai assaggiato e che dimostrò di gradire molto.
Stavano finendo una vaschetta di gelato alla crema quando bussarono alla porta. Elena sentì il sangue gelarsi nelle vene, poi un’ondata di panico partire dalla schiena e percorrerla tutta, soprattutto nelle gambe, che divennero improvvisamente molli e tremolanti. Si impose la calma, fece un respiro profondo e si sollevò in piedi. Aprì l’armadio, prese un asciugamano di spugna, di quelli che si usano di solito per il viso, e se lo avvolse attorno al corpo. Avrebbe preferito qualcosa di meglio, ma gli accappatoi erano bagnati e non aveva tempo per infilarsi i vestiti. Non aveva neppure il pigiama in quell’appartamento: avrebbe dovuto provvedere al più presto.
Guardò Mark negli occhi e disse:
«Va a chiuderti in bagno. Qualunque cosa succeda non parlare, non fare rumore, ma soprattutto non uscire se non te lo dico io.» Mark obbedì e corse a chiudersi in bagno mentre lei cercava di far sparire le tracce più grosse della sua presenza. Gettò uno dei due bicchieri nel lavello accanto alla piccola cucina e sistemò la sua camicia sotto i cuscini del divano. Le scarpe, i pantaloni e il resto se li era tolti in bagno, quindi probabilmente erano ancora là. Diede una rapida occhiata tutto intorno, fece un altro respiro profondo e si decise ad aprire.
Dietro alla porta, in pigiama ed armato di torcia elettrica, il Signor Roser continuava a fissare le due estremità del corridoio estremamente teso e preoccupato. Quando vide la direttrice si illuminò e parve rassicurarsi.
«Direttrice Signorit, per fortuna è qui. L’avevo sentita entrare prima, ma avevo paura che fosse uscita.» L’aveva sentita rientrare, quindi probabilmente aveva sentito entrare anche Mark; la cosa si metteva male.
«Si calmi ora, e mi racconti cosa l’ha spaventata tanto.» Mostrarsi tranquilla era l’unica cosa che poteva fare in quel momento. Roser era un piantagrane e aveva un risentimento particolare nei suoi confronti perché come professore più anziano era il primo candidato a prendere il posto del direttore Dumbmi quando questo era andato in pensione. Lei gli aveva tolto quel posto che considerava suo di diritto e adesso non perdeva occasione per metterle i bastoni fra le ruote. Poche settimane prima l’aveva ripresa aspramente di fronte al consiglio scolastico per via della disinvoltura con cui parlava con Mark in piscina. Aveva definito “indecoroso” che una direttrice si intrattenesse in piscina, praticamente svestita a filare con un allievo. Lei lo aveva rimesso al suo posto, anzi, aveva approfittato dell’occasione per far capire al consiglio che razza di viscido individuo fosse Roser; ma allora non aveva nulla da nascondere, provava una forte attrazione per Mark ma fra loro non era ancora accaduto nulla e niente lasciava intendere quello che sarebbe accaduto poi. Come si sarebbe difesa se l’avessero sorpresa nuda, in una camera dell’istituto, insieme a un suo studente? Quali motivazioni poteva addurre per tirarsi di impaccio da una simile situazione, ma soprattutto per salvare Mark dall’espulsione? Doveva darsi da fare e doveva fare in modo che Roser non si accorgesse di nulla; sembrava più facile a dirsi che a farsi!
«Stavo leggendo quando ho sentito un colpo, un botto sordo, come quello di un’arma da fuoco. Proveniva dal corridoio, ne sono sicuro, ma quando mi sono affacciato non c’era nessuno.»
«Quello che ha sentito era il botto di un tappo di Champagne e veniva dalla mia camera, non dal corridoio, ed è stato più di un quarto d’ora fa. Mi dispiace di averla disturbata.» Forse la situazione volgeva a suo vantaggio; rassicurare Roser e rimandarlo a dormire era la cosa migliore da fare.
«È sicura? Non vorrei spaventarla, ma ci sono molti brutti individui in giro, non vorrei che qualcuno fosse entrato nell’istituto con cattive intenzioni. Forse non dovrebbe restare sola di notte? Potrebbero aggredirla, potrebbero approfittare del fatto che una donna sola…»
Aveva pronunciato le ultime parole fissando il seno fasciato dall’asciugamano di spugna che spingeva prepotentemente per uscire allo scoperto. Di tanto in tanto lanciava occhiate furtive alle gambe scoperte o ai fianchi nascosti dal telo sottile, poi tornava a concentrarsi sulle sue tette; la faceva sentire estremamente a disagio. “Ecco” pensò “sono di fronte a un uomo adulto, colto, membro della classe medio borghese, presumibilmente abbastanza raffinato da conoscere le regole di comportamento della buona società, che non riesce a non mangiare con gli occhi una donna poco vestita.” Si chiese se tutti gli uomini fossero così. Mark non lo era. Era solo un ragazzo, eppure la prima volta che l’aveva incontrato in piscina era stato in grado di farla sentire perfettamente a suo agio. Ripensandoci, era Mark ad essere straordinario.
«Sono sicura di non correre alcun rischio e se anche fosse sono in grado di difendermi benissimo da sola. Ora mi scusi ma sono stanca e vado a dormire.» Senza dargli il tempo di rispondere richiuse la porta, temendo che lui insistesse per farle compagnia.
«Forse è meglio che controlli il suo appartamento.» Elena non era riuscita a chiudere la porta, il piede messo vicino al battente glielo aveva impedito. Roser l’aveva riaperta ed era entrato di prepotenza; a questo punto non poteva fare altro che assecondarlo sperando che tutto finisse il più presto possibile.
«D’accordo. Controlli pure. Non c’è nulla di cui aver paura, vede? Le finestre sono chiuse, la porta lo era prima che lei venisse a bussare, nell’appartamento non c’è nessuno. Come vede sono al sicuro. Ora vuole andare via e lasciarmi riposare in pace?»
«Non si è mai troppo prudenti.» Andò in camera da letto. Sul materasso c’erano i resti della cena e il secchiello con la bottiglia vuota per metà. «Accidenti, che lusso. Mangia sempre in camera da letto?»
«Vedevo un documentario alla televisione e, con tutto il rispetto, non credo che queste cose la riguardino.» La situazione cominciava a diventare pericolosa.
«Ha bevuto mezza bottiglia di champagne?» Aveva la bottiglia in mano e la osservava attentamente.
«Anche questo non credo la riguardi. Per favore, vuole andar via e lasciarmi riposare?»
«Va bene. Mi sembra tutto a posto, quindi tolgo il disturbo.» Si diresse verso la porta che dava sul corridoio ed Elena tirò un sospiro di sollievo. Si fermò nel piccolo ingresso e raccattò da terra il portachiavi d’argento di Mark. «Questo cos’è? Sono le chiavi di un’auto. Sono sue?»
«Sì sono mie.» Si pentì subito di quella stupida bugia. Come diavolo c’erano fine lì le chiavi? Lei le aveva date a Mark quando era rientrata, lo ricordava benissimo, e con ogni probabilità lui doveva averle rimesse a posto, ci teneva tanto a quella macchina, ed era così preciso nelle sue cose. Forse erano cadute quando aveva nascosto la camicia sotto il divano. Possibile che non se fosse accorta? Dovevano aver fatto rumore cadendo e lei non aveva sentito nulla. Guardò in basso e maledisse la moquette verde che aveva sotto i piedi.
«Accidenti, sono le chiavi di una Porsche. Ma lei non aveva una Mercedes?»
Maledì le case produttrici di auto che mettevano il loro stemma sulle chiavi.
«L’auto non è mia. La mia auto è dal meccanico e un amico mi ha prestato la sua visto che non ne aveva bisogno.» Ancora una volta si pentì d’aver mentito così scioccamente. Poteva raccontare la verità; non c’era nulla di male se un suo studente le prestava un’auto, tanto più se lo studente in questione era il rappresentante degli studenti.
«Stia attenta a non perderle: è una macchina da almeno ventimila sterline.»
“Quell’auto vale almeno triplo” penso fra sé. E pensò a Mark e a quanto ci tenesse; se avesse sentito un prezzo così basso probabilmente avrebbe inveito contro Roser. Sorrise immaginando un uomo alto e muscoloso come il suo giovane amante che urlava contro quel piccoletto grasso. L’immagine era effettivamente molto divertente; Mark doveva essere alto almeno cinquanta centimetri più di Roser e pesare quasi il doppio.
«È sicura che non vuole che resti a farle compagnia? Potremmo finire lo champagne e fare quattro chiacchiere, e magari…» La situazione era talmente tanto assurda e paradossale da essere quasi comica; ci stava provando, era evidente, e senza il minimo tatto. Continuava a guardarla ammiccando come se la proposta fosse la più interessante della sua vita e non sembrava minimamente preoccupato delle reazioni di lei. Cosa lo faceva sentire così sicuro? Con più di venticinque anni di differenza e soprattutto con quei trenta chili di troppo un rifiuto era il minimo che potesse aspettarsi; senza contare poi gli attriti fra di loro.
«Farò finta di non aver sentito le sue ultime parole. E adesso fuori di qui.» Era così disgustata da quella squallida offerta che avrebbe voluto urlargli in faccia tutto il suo disprezzo ma si impose una calma apparente; mandarlo via aveva la priorità e avrebbe sicuramente avuto altre occasioni per fargliela pagare.
Quando chiuse la porta respirò a lungo profondamente, più per calmarsi che per il sollievo. Attese qualche istante per assicurarsi che Roser rientrasse nel suo appartamento; poteva essere così viscido da origliare alla sua porta e preferiva non correre altri rischi. Quando finalmente lo senti chiudere a chiave l’ingresso del suo appartamento si rilassò e si chiese se non fosse il caso di cambiare l’assegnazione degli alloggi. Non voleva essere vicina di quell’individuo ma non poteva cambiare gli appartamenti senza destare altri sospetti; forse era meglio lasciare tutto così com’era. Andò a recuperare Mark in bagno.
«Mark, cessato pericolo, puoi uscire.» Il tono della voce era volutamente basso; non era il caso di correre il rischio che qualcuno li sentisse. Lui aprì la porta e uscì.
«Accidenti, non credevo che Roser fosse un gran seduttore.» Anche lui parlava piano, quasi bisbigliando. «L’ho sempre considerato troppo imbranato per prendere l’iniziativa con una donna; evidentemente hai scatenato i suoi ormoni letargici.»
«L’unica cosa che lui è riuscito a scatenare è il mio disgusto.» Lo disse con un’espressione di ribrezzo sul volto, scuotendo il capo da una parte all’altra. Quell’individuo l’aveva veramente disgustata.
«Devi essere comprensiva. Insomma, non capita tutti i giorni che una bella donna venga ad aprirti praticamente nuda; e se sei come Roser, questo può provocarti dei seri squilibri a livello ormonale. Poverino, non riusciva a staccarti gli occhi di dosso. Scommetto che quando è andato via era così arrapato che è corso a masturbarsi in bagno.»
«Ti prego, smettila.» L’idea di quell’ometto panciuto che si masturbava sul cesso pensando al suo corpo la faceva rabbrividire, ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di sorridere della squallida immagine che aveva nella testa. «È stato abbastanza umiliante, non c’è bisogno di parlarne.»
«Scusa, non era mia intenzione metterti a disagio.»
«Lo so! Tu non sei quel tipo d’uomo.» Si strinse forte al suo petto e lui ricambiò cingendola con un braccio mentre con l’altro le accarezzava i capelli. «Probabilmente adesso è seduto sulla tazza, con i calzoni del pigiama abbassati sulle caviglie, che si masturba tutto eccitato.» disse lei sorridendo.
«Sì, e ha gli occhiali tutti appannati, il viso paonazzo e la bocca dilatata in un’espressione ebete.» Aggiunse lui molto divertito.
«Già,» si affrettò a continuare lei «e probabilmente ce l’ha talmente piccolo che ha fatto fatica a trovarlo e adesso se lo sta menando tenendolo fra pollice e indice.»
Risero entrambi fragorosamente, dimenticando per un attimo tutto quello che era successo pochi minuti prima. Fu lui ad accorgersi del baccano che stavano combinando; si portò l’indice sulle labbra facendole segno di non ridere forte e lei si portò la mano sulla bocca cercando di tapparla. Smettere di ridere era davvero difficile.
«Probabilmente non ci può sentire» disse lei continuando a ridere «perché è troppo impegnato!»
«Lo escludo. Probabilmente soffre di una grave forma di eiaculazione precoce ed è venuto prima ancora di raggiungere il bagno. Adesso starà già dormendo.»
Risero ancora poi lui aprì il telo di spugna che l’avvolgeva e ammirò il suo corpo come si fa con un’opera d’arte. Lei lo lasciò fare; gli piaceva essere ammirata da lui, non gli dava alcun senso di fastidio, anzi, la faceva sentire bella e desiderata. Cominciò ad accarezzarlo sui fianchi e poi sugli addominali, graffiandolo piano vicino l’inguine, giocando con le dita fra i peli ricciuti che crescevano sopra il cazzo. Ogni tanto si fermava e lo guardava negli occhi, poi riprendeva a fare quello che aveva interrotto.
Giocarono in questo modo per qualche minuto, poi si trasferirono in camera da letto e fecero l’amore a lungo, animati da una passione troppo forte per essere soffocata, fino a che non si addormentarono esausti nelle braccia una dell’altro.